LA METAMORFOSI DI UN CONCETTO
La parola italiana “lavoro”, quella inglese “labour”, quella francese “travail”, quella spagnola “trabajo” derivano tutte dal latino “labor” che significa “pena”, “sforzo”, “fatica”, “sofferenza”.
L’etimo tradisce la base storica del concetto ovvero la visione che le civiltà del passato avevano del “fare” dell’uomo. Già nella Bibbia, il lavoro ha il significato di pena e maledizione causato dal peccato commesso da Adamo ed Eva, rei di aver assaporato la mela, il frutto della conoscenza.
L’idea di lavoro come castigo dovuto all’ambizione di conoscenza è presente anche nel mondo greco, nel celebre episodio che narra l’incontro di Ulisse con le sirene che rappresentano la conoscenza.
Il lavoro come attività manuale e faticosa contrapposta alla conoscenza è reso evidente anche analizzando i termini latini “otium” e “labor”, dove il significato di ozio rappresenta quelle attività intellettuali come l’arte o la politica, ma anche esercizi fisici, a condizione però che siano destinati alle attività ginniche o marziali.
Il concetto di “labor” ha, al contrario, evidente, il significato di disprezzo per la fatica, riprendendo il concetto greco di Aristotele che spera nel progresso tecnologico come strumento per lenire gli sforzi.
L’idea di disprezzo associata al lavoro rimane durante tutto il Medioevo, periodo nel quale era riconosciuta la divisione tra la vita contemplativa, rappresentata dallo stato ecclesiastico e la vita “activa” che comprendeva le attività pratiche, cioè il lavoro.
L’unica eccezione al concetto è costituita dalla nota espressione di San Benedetto, “ora et lavora”, nella quale il lavoro viene inteso come un’opera che porta alla creazione e alla preghiera.
Tra la fine del 1400 e primi del 1500, con Martìn Lutero, teologo e accademico tedesco, riformatore religioso e precursore del protestantesimo, il lavoro diventa vocazione, dal tedesco “Beruf” che significa contemporaneamente vocazione, chiamata, dovere. Il lavoro diviene così un punto cardine dell’esistenza, lavorare è inteso come mettersi al servizio di Dio, e l’ozio assume un’accezione negativa e contro natura.
È durante il Rinascimento, che il lavoro diviene un mezzo per la realizzazione di sé stessi, iniziando ad assumere un significato affine ai giorni nostri. Successivamente a metà 1800, il filosofo, economista e storico tedesco Karl Marx e il filosofo e teologo tedesco, Friedrich Hegel, intendono il lavoro con un doppio significato: da un lato esso rappresenta un’attività specifica dell’uomo che lo differenzia dagli animali e che gli permette di incidere sulla realtà, dall’altro è una condizione imposta dal capitalismo che porta schiavitù e alienazione.
È durante questo periodo quindi che il lavoro, passa da una concezione religiosa ad una filosofica, tramutandosi con il trascorrere del tempo in uno strumento finalizzato al consumo e al godimento del tempo libero.
Infine tra Ottocento e Novecento il lavoratore assume nella società un ruolo attraverso il quale la retribuzione diviene uno strumento per l’autorealizzazione e così il concetto stesso di lavoro acquisisce un valore più che positivo. Successivamente, con la globalizzazione e le nuove tipologie di organizzazione, l’attività lavorativa ha subito ulteriori mutazioni nella definizione, nei tempi e nelle relazioni.
E ora, paradossalmente, assistiamo a due diverse possibili situazioni, entrambe socialmente molto pericolose ed entrambe attentamente studiate sia dalla filosofia del lavoro che dalla sociologia e dalle scienze affini: da una parte lo svilupparsi dell’idea che l’uomo possa essere considerato solo in base al lavoro che svolge, dall’altra, speculare, l’espandersi del fenomeno per il quale gli Americani hanno addirittura coniato un nuovo termine “workaholism” ovvero “ubriacatura da lavoro”.
Nel primo caso, l’uomo, se non produttivo, viene inesorabilmente emarginato dalla società che considerandolo spesso poco più di uno “scarto” lo farà sentire impotente ed incapace con tutto ciò che questo inevitabilmente comporta.
Chi perde il lavoro o chi non riesce a trovarlo è infatti “out” e difficilmente avrà la possibilità di non finire ai margini del sistema. Nel secondo caso siamo invece di fronte a tutta una serie di problematiche che superano di gran lunga l’ottocentesco concetto di “alienazione” così ampiamente dibattuto dalla filosofia.
Siamo di fronte alle sindromi da dipendenza dal lavoro o da esaurimento affettivo (il cosiddetto “burn out”), per citarne solo due tra le più impattanti, che derivano dall’essere ferocemente fagocitati dal lavoro: nulla più esiste al di fuori e al di là della carriera e di quello spazio lavorativo.
Vediamo quindi come attorno al concetto “lavoro” sia possibile sviluppare un’ampia gamma di riflessioni, non ultima quella offertaci dalla nostra Costituzione che del lavoro fa un cardine fondante. In particolare l’articolo 1 gli riconosce uno statuto quasi ontologico recitando:
“L’Italia è una repubblica democratica fondata dal lavoro”. E gli articoli 4 e 35 sottolineano la sua peculiare caratteristica di dovere/diritto.
Certo perché tutti, anche, e forse soprattutto, le categorie più svantaggiate, hanno il diritto di potersi pienamente realizzare, così come tutti hanno il dovere di concorrere, attraverso il loro fare, alla crescita della società. Un mondo perfetto, e perciò utopico, è un mondo nel quale a ciascuno è offerta la possibilità di “essere e vivere il/del proprio lavoro”. Un mondo reale ben governato è un mondo che tende ad essere perfetto.