La filosofia è una cosa seria. E, forse, proprio perché è una cosa seria nasce con una risata. Racconta infatti Platone nel “Teeteto”:
«Talete (astronomo e protofilosofo ), mentre studiava gli astri e guardava in alto, cadde in un pozzo. Una graziosa e intelligente servetta trace lo prese in giro, dicendogli che si preoccupava tanto di conoscere le cose che stanno in cielo, ma non vedeva quelle che gli stavano davanti, tra i piedi. La stessa ironia è riservata a chi passa il tempo a filosofare […] provoca il riso non solo delle schiave di Tracia, ma anche del resto della gente, cadendo, per inesperienza, nei pozzi e in ogni difficoltà».
Nel mondo antico, in Grecia e a Roma, nonostante l’iniziale rigida opinione dello stesso Platone che accusava la poesia comica di condurre l’animo umano alla volgarità, di porre in ridicolo e beffeggiare uomini illustri e Dei e di sconvolgere l’equilibrio della nostra psiche, si rideva e si rideva molto, in maniera pubblica e strutturata attraverso, appunto, la letteratura alta (poesia e teatro) e bassa (epigrafi).
Si faceva cioè ricorso all’ironia come strumento dialogico di confronto e critica politica anche feroce. D’altronde l’altro padre della filosofia, Aristotele, riconosceva alla risata il carattere di forza sociale e coesione tra gli uomini e i grandi medici Ippocrate e Galeno la potenzialità di condizionare, migliorandola, la salute dell’uomo grazie alla sua funzione liberatoria di sostanze benefiche per l’organismo.
E gli Dei? Ridevano, ridevano, anzi si sbellicavano dalle risate guardando giù alla nostra insipienza e al nostro accanimento nel seguire in maniera ostinata comportamenti dissennati. O almeno, ridevano quegli Dei cui era consentito esercitare la magnifica e liberatoria pratica del riso. Gesù invece no, Gesù non rideva mai. O forse, anzi sicuramente, lo ha fatto ma il suo riso è stato negato. Gesù piange, alza la voce, ma non ride.
Nei monoteismi le cose stanno così: né Dio ride, né di Dio si ride. L’assenza di riso è uno dei modi che mettono distanza tra il divino e l’umano. Al contrario dei politeismi, giacché gli Dei di quelle religioni, grazie alla vicinanza diretta al mondo degli uomini si innamorano dei mortali, si infuriano con loro o ne sono invidiosi- sono anche in grado di ridere.
Ciò viene bene rappresentato da Umberto Eco nel suo romanzo “Il nome della rosa” attraverso il personaggio del monaco cieco Jorge di Burgos al quale l’autore fa affermare: “Cristo non rideva. Il riso è fonte di dubbio”. Per secoli quindi è valsa la formula : “risus abundat in ore stultorum” (il riso abbonda sulla bocca degli stolti) salvo, ovviamente, concedere lo spiraglio di poterlo fare, e in maniera perfino molto volgare, durante il Carnevale perché «semel in anno licet insanire» (una volta all’anno è lecito impazzire) (soprattutto se mascherati).
E in questo confronto con la religione attorno al riso la filosofia è rimasta silente? Se ne riprende a parlare nel ‘600, ma è tra il XVIII e il XIX secolo che troviamo una attenzione maggiore e la formulazione di teorie interessanti quali quelle di Kant e Schopenhauer che colgono il nesso tra la risata e la capacità di conoscenza del reale e di accrescimento dell’esperienza umana.
D’altronde già Tommaso d’Aquino, unica voce fuori dal coro della tradizione, aveva avuto il coraggio, o forse è meglio dire l’onestà intellettuale, di riconoscere il riso come una virtù. Dal ‘900 in poi numerosi sono gli autori (da Freud in avanti) che nel campo delle neuroscienze e della psicologia analizzano e mettono in evidenza l’alto valore terapeutico della risata. Fino appunto alla formulazione della “Clown terapy” così importante in ambito ospedaliero. Perché ridere è una cosa seria. Ippocrate e Galeno docent?
Certo, tutto torna e il cerchio si chiude. Che meraviglia poter esorcizzare l’angoscia con una risata trasgressiva, ridimensionare le cose ridendone, grazie all’invito a non prendere troppo sul serio se stessi e le norme sociali prevalenti ogni comunità ha bisogno di momenti in cui si prende gioco dei potenti e nemmeno la teoria pura come commentava il filosofo tedesco Hans Blumenberg.
Talete, infatti, inciampa e cade per mancanza di elasticità e per eccesso di automatismo, ma poi si rialzerà, comunque, e continuerà a volgere la mente alle questioni ultime. Ma anche un po’ alle faccende pratiche, speculando sui frantoi di olive di Mileto e arricchendosi grazie al nolo ricavato. Facendo tesoro dunque dello spirito di resilienza dell’umorismo.
D’altronde come ci ricorda il filosofo John Morreall nel suo saggio “Filosofia dell’umorismo” edito nel 2011: «Di tutte le attività ed esperienze umane, ridere è probabilmente la più divertente», perché per dirla con il grande Charlie Chaplin: «La vita è una tragedia, se la guardi da vicino, ma una commedia se la guardi da lontano».