Un rapporto da Riconquistare
Lo sguardo che l’uomo ha rivolto alla natura nel corso dei secoli ha inevitabilmente influenzato il suo modo di considerarla e trattarla. Il tema della Terra come Madre è presente virtualmente in tutte le culture, fin dai primordi del Neolitico: l’idea è che la Terra sia una sorta di grembo per la vita.
Nella cosmogonia greca antica, per esempio, Gaia è l’iniziatrice della vita: da essa discendono gli dei olimpici e tutte le creature viventi. Ma è anche la Mater Tellus dei Romani e la Hel della mitologia nordica. È una dea madre che ad ogni ciclo stagionale si rinnova (è sempre vergine ed è sempre feconda) e conosce i misteri della vita e della morte: è una dea della sapienza.
Nel corso dei secoli poi la dea tende ad articolarsi in figure femminili più differenziate, ciascuna delle quali conserva comunque un attributo della dea originaria. Con l’avvento del cristianesimo questo rapporto quasi “carnale” e simbiotico, ma al tempo stesso sacrale, muta e, fatta eccezione per posizioni particolari quali per esempio quella di S. Francesco d’Assisi che continua a considerare la Terra “sora nostra matre” e a rispettarla profondamente, prende avvio per la cultura occidentale un percorso che vede dominare l’uomo.
Ciò in ragione del fatto che una certa lettura del messaggio biblico intende il creato come un dono di Dio all’uomo, fornendo, quindi, a quest’ultimo l’alibi per potersi considerare, essendo stato plasmato a immagine e somiglianza del Dio stesso, superiore a tutte le altre creature.
Il progresso della tecnica e della scienza e l’avvento delle rivoluzioni industriali hanno poi sancito il trionfo dell’homo faber che, come è ben analizzato nelle opere dello psicologo E. Fromm, “si consente di violentare le leggi della natura, di provocarla nella sua intima essenza fino a trasformare la sua struttura (...) e la natura diventa puro strumento di progresso”.
Oggi di fronte all’inevitabile riconoscimento dei drastici cambiamenti climatici occorre necessariamente una rapida mutazione di paradigma che ribaltando il prometeismo imperante costruisca quello che il filo sofo H. Jonas definisce “il principio responsabilità”, cioè una nuova etica globale che tenga in considerazione due aspetti: le componenti non umane del pianeta e la vita delle generazioni future.
Questa morale rivoluzionaria dovrebbe recitare: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra“. Tutto ciò lo troviamo ben indicato nell’Enciclica “Laudato sì” che il Papa, non a caso un Francesco e non a caso un titolo francescano, ha dedicato a noi tutti perché riflettessimo al di là delle nostre posizioni religiose o confessionali.
Un testo che apre alla necessaria autocritica e che sorprende, come sostiene l’intellettuale indiano A. Ghosh nella sua analisi comparativa, proprio tra l’Enciclica e l’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico, entrambi del 2015, contenuta nel suo “La grande cecità”.
Se solo riuscissimo a non pensarci solo intelligenza linguistico-verbale e/o logico-matematica, ma recuperassimo quell’empatia ancestrale che ci legava alla Terra, sentiremmo, più che capire, che essa è veramente una Casa Comune e che siamo tutti figli di Gea, figli di una lunghissima e ininterrotta storia evolutiva nella quale si sopravvive solo se si cammina insieme.
Allora sarà la nostra innata biofilia cioè il nostro amore per la natura e quindi anche per noi stessi a farci prendere coscienza delle nostre responsabilità nei confronti di tutto il creato; responsabilità che ci derivano dall’essere la specie che conosce le altre specie.