OVVERO LA VALIDITÀ DELLA POTENZA DEL MITO
All’inizio del libro VII di una delle opere più importanti del grande filosofo Platone Politeia, più comunemente conosciuta come La Repubblica, scritta approssimativamente tra il 380 e il 370 a.C., l’autore pone un mito, celeberrimo, il mito della Caverna.
La perenne attualità di questo racconto ne fa un testo di sconvolgente potenza tanto che la sua presenza nell’immaginario collettivo è sempre viva dalla letteratura alla cinematografia, da Pirandello a Beckett, a film come Il Conformista di Bertolucci e i famosissimi Blade Runner, The Truman Show o Matrix.
Ricordiamo brevemente la traccia: all’interno di una caverna oscura vi sono degli uomini tenuti legati con il volto rivolto verso l’interno, costretti a guardare le ombre proiettate sulla parete di fondo dalle cose reali e dagli uomini che passano davanti all’entrata, illuminati da dietro da un granfuoco.
I prigionieri quindi non hanno altro che ombre e voci per ragionare sulla realtà e non hanno la minima idea di come siano fatte veramente le cose: così, vincolati alle apparenze, anche gli uomini pensano per impressioni fugaci e per sentito dire, credendo che le opinioni siano realtà.
L’allegoria prosegue descrivendo un evento eccezionale: uno dei prigionieri, riuscito a liberarsi, getta lo sguardo fuori dalla caverna e vede il mondo reale, illuminato dal Sole; tornato a liberare i compagni, non viene creduto e viene ucciso.
Come tutti i miti anche questo si presta a più livelli di lettura interpretativa pur essendo nel suo complesso una rappresentazione della condizione umana. Innanzi tutto i prigionieri siamo tutti noi quando non vogliamo aprire gli occhi, quando ci accontentiamo di vivere passivamente senza porci domande, senza scavare sotto la superficie di ciò che gli altri ci trasmettono, credendo appunto ciecamente alle doxa (opinioni) e quando ad esse vogliamo rimanere saldamente ancorati.
La grande e prorompente attualità di Platone è tutta qui: il muro della caverna è oggi un qualsiasi display: Tv, smartphone, tablet e PC sono gli strumenti correnti che possono annebbiare la vista e la mente. Un muro ampiamento condiviso, virtuale, onnipresente.
Senza rendercene conto le catene diventano sempre più strette e ci costringono a porre l’attenzione non alle cose vere, ma alle ombre dentro il monitor. Le immagini pubblicitarie e mediatiche e le fake news sono simulacri potenti che possono influenzare in maniera irreparabile il nostro modo di pensare e vivere il mondo.
Paradossalmente, come ci suggerisce a riflettere Galimberti, anche scattarsi un selfie costituisce un’iperbole mediatica priva di fondamento (come un’ombra proiettata all’interno della caverna) perché quel gesto costruito dà corpo ad un immaginario evanescente (ad una doxa): il nostro vero essere non è l’immagine priva di spontaneità che vogliamo trasmettere agli altri.
Noi siamo ben altro. Ecco dunque che abbiamo trovato due livelli moderni di validità del mito platonico: il livello del non voler liberarsi dalle catene e il livello del costruire catene per gli altri. Le catene sono quelle che devono essere spezzate.
Le catene della sudditanza dovuta alla pigrizia di pensare quando è più comodo che siano gli altri a pensare per me. Perché, come ci ricorda Kant in un suo scritto del 1783:
«(…) Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! (…)».
Le catene della costruzione di un falso sé quando proiettiamo per gli altri una immagine edulcorata della nostra persona, quando perdiamo per sempre il fanciullino pascoliano che è in noi e che ci consentirebbe di guardare il mondo con meraviglia e stupore, concentrandoci sulle piccole cose, briciole di bellezza che sono sparse lì fuori, per chiunque.