La Festa della Libertà
- Marta Scavolini
- 28 feb
- Tempo di lettura: 4 min

SPUNTI CARNEVALESCHI
Quando si dice “Carnevale”, la prima cosa che viene in mente sono le maschere ed i carri allegorici che sfilano per le vie delle città creando un’atmosfera scherzosa e spensierata. Non si sa esattamente da dove il termine “carnevale”; abbia avuto origine. C’è chi sostiene che provenga da “carnavalis”, il rito della nave sacra portata in processione su un carro; secondo altri invece significa “carnes levare” (“togliere la carne”) o “carne vale” (“carne, addio”) e alluda ai digiuni quaresimali, dato che il Carnevale si conclude con il martedì grasso, il giorno che precede, nei paesi cattolici, il mercoledì delle Ceneri, inizio della Quaresima.
Ciò che è certo è che ha origini antiche. A Roma Febbraio era il mese delle purificazioni. Lo scrittore latino Macrobio ricorda che il mese era dedicato al dio Februus: “Durante questo mese bisogna purificare la città e celebrare i riti funebri per i Mani, divinità del mondo sotterraneo”. Il passaggio dall’inverno alla primavera permetteva un con tatto con il mondo dell’aldilà: i morti reclamavano cerimonie in loro onore. A febbraio - dice il poeta Ovidio - “si onorano anche le tombe, si placano le ombre degli avi e si portano piccoli doni sui sepolcri”. Alle cerimonie di purificazione e di commemorazione si intrecciavano riti di fecondazione, come nei Lupercali, feste antichissime in onore di Marte e del dio Fauno.
Quindi il periodo corrispondeva ad una sorta di rivincita della vita sulla morte che seguendo la tradizione greca avveniva attraverso il riso. Infatti nei miti dei Misteri eleusini, la grande cerimonia religiosa della Grecia antica in onore di Demetra, la dea, che ha perduto la figlia Core, non ride più e tutto il mondo, essendo lei la dea della fecondità, rischia la morte: non nascono né fiori, né piante, né animali, né umani. Finalmente una servetta, facendo un gesto volgare, fa ridere Demetra e tutto torna a rinascere e fiorire. Un altro importante elemento che la cultura romana aveva mediato da quella greca era la necessità di concedere al popolo uno spazio di libertà dalle regole.
Per questo avevano reso meno estrema la festa dei Baccanali (rito orgiastico greco dedicato al dio del vino) trasformandola nei Saturnali: solenne momento religioso di carattere popolare, che si celebrava in onore del dio Saturno, in un periodo compreso tra il 17 e il 23 dicembre, coincidente con il solstizio d’inverno e pertanto connesso con la fine del ciclo dell’anno solare. I festeggiamenti, il cui intento era quello di abolire le distanze sociali, avevano spesso carattere licenzioso e orgiastico e per tutta la loro durata agli schiavi era permesso di esprimersi e agire con particolare libertà.
Il Medioevo e il Rinascimento, incardinando tutte queste antiche feste dentro l’anno liturgico cristiano, mantengono l’elemento della sregolatezza, associandovi, inoltre, l’aspetto legato al cibo attraverso le abbuffate. Dunque durante il carnevale tutto è permesso: divertimento esagerato, grandi mangiate, burle, in versioni dei ruoli (uomini vestiti da donna e donne vestite da uomo, ricchi vestiti da poveri, ma, ovviamente non il contrario), nascondimento della identità con la maschera. Perché come cantava Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze: “Quant’è bella giovinezza, / che si fugge tuttavia: / Chi vuol esser lieto, sia / di doman non v’è certezza”.
Il Carnevale dunque, pur trasformandosi, ha mantenuto, nel tempo, le sue caratteristiche originarie, di base, di festa degli eccessi “regolamentati”, durante la quale, essendo un “tempo grasso” (si mangia il maiale in abbondanza dato che poi in Quaresima non potremo mangiare carne) e un “tempo rovesciato”, è concessa quasi ogni sorta di azione (a volte anche violenta come ci racconta la furibonda lotta delle arance ad Ivrea).
Se, comunque oggi, gli aspetti più marcati (sfoggio della potenza del signore e strumento di propaganda politica e culturale nonché spazio della licenziosità sessuale) sono stati eliminati (ad eccezione della satira espressa con i carri allegorici) quel che resta è l’accento sulla libertà.
Cos’è per noi oggi, nella nostra vita quotidiana, la ‘libertà’? Se ce lo chiediamo, ci accorgiamo subito che essa si manifesta in due modalità: “libertà di” e “libertà da” e che queste non costituiscono una alternativa ma sono, piuttosto, complementari e insieme ci offrono una visione ricca e articolata su ciò che significa essere liberi.
La “libertà di” si riferisce alla capacità di agire, di esprimersi, di perseguire i propri obiettivi e di realizzare il proprio potenziale. Questa interpretazione della libertà è spesso associata all’idea di autonomia e auto-realizzazione e si manifesta, ad esempio come libertà di parola, di religione o di associazione.
La “libertà di” quindi, è essenziale tanto per lo sviluppo individuale quanto per l’evoluzione della società. La “libertà da” invece, sottolinea l’aspetto dell’essere liberi da costrizioni esterne o interne. Queste costrizioni possono essere tangibili, come la povertà o l’oppressione, o intangibili, come le paure o le insicurezze.
Isaiah Berlin, filosofo del ‘900 che, nel suo saggio intitolato “Due concetti di libertà”, ha esplorato questa duplice interpretazione, ha sottolineato come la “libertà da” sia cruciale per evitare la tirannia e l’oppressione. Essere liberi da vincoli esterni è un prerequisito per realizzare la propria “libertà di”. Nonostante le distinzioni, appare evidente quindi come le due interpretazioni di ‘libertà’ siano strettamente interconnesse.
Senza la “libertà da”, costrizioni, la “libertà di” agire è limitata. Allo stesso modo, se non esercitiamo attivamente la nostra “libertà di” potremmo ritrovarci imprigionati in catene invisibili, limitando la nostra “libertà da”. Siamo, come ci ricorda J.P. Sartre “condannati ad essere liberi”, cioè siamo costantemente chiamati a fare scelte e ad assumercene la responsabilità. E nella sua scuola di Barbiana, tra le colline toscane, il prete “rivoluzionario” Don Lorenzo Milani, ha dato corpo a questa visione della “libertà da” (ignoranza e povertà) che diventa strumento per la “libertà di” costruire sé stessi in una emancipazione cosciente.
Nella consapevolezza cioè che esiste un rapporto complesso tra libertà, responsabilità e bene comune. Il fatto di essere parte di una comunità implica inevitabilmente l’accettazione di una limitazione del le libertà individuali. E ciò non significa non essere liberi.