PAROLE COME PIETRE
È evidente a tutti come oggi, più che nei tempi passati, il linguaggio sia utilizzato come uno strumento per attaccare e offendere. Anzi, sembra quasi che il farlo possa essere considerato un vanto.
Qualche anno fa la filosofa del linguaggio Claudia Bianchi ha pubblicato un volume dal significativo titolo “Hate speech” locuzione inglese che sta per “Parlato d’odio” nel quale analizza, come già fece a suo tempo il grande linguista Tullio De Mauro, tutte le espressioni e le frasi che vengono utilizzate per indicare derisione, disprezzo e ostilità nei confronti degli interlocutori, sia gruppi sia individui, quando questi vengono considerati avversari da colpire o addirittura nemici da abbattere.
In queste ricerche abbiamo tutti gli elementi centrali del problema che stiamo analizzando: l’istinto aggressivo che è purtroppo caratteristico del genere umano e l’uso che facciamo del linguaggio a seconda delle situazioni nelle quali ci troviamo.
Partendo dal primo elemento osserviamo come, nel corso del tempo, a fatica, l’uomo abbia imparato a controllare i propri impulsi primitivi costruendo regole sociali (le leggi) e incanalando le forze negative in azioni positive e socialmente accettate come lo sport (nel quale l’aggressività è a volte fondamentale) e alcune attività di gioco nelle quali è permesso considerare l’altro come un avversario ed è lecito “abbatterlo”.
Ma la realtà tecnologico-scientifica nella quale viviamo oggi, mettendoci a disposizione uno strumento molto potente, quale è quello della Rete, ha cambiato radicalmente il contesto nel quale viviamo.
La Rete, date le sue caratteristiche e la rapidità con la quale si è sviluppata, ha creato e crea numerosi e complicati problemi di natura etica e, di conseguenza, legale dei quali ora si sta ampiamente discutendo.
Essa potrebbe infatti rappresentare un grande campo di libertà, di esercizio democratico e di crescita culturale per la possibilità che offre di condividere idee e nozioni in maniera simultanea ed estremamente ampia, se non fosse che, contemporaneamente, ciò che passa, attraverso di essa, viene mantenuto, aggregato e amplificato.
In tal modo se, attraverso i messaggi, immettiamo in Rete “parole d’odio”, quest’ultime lì rimangono, incancellate, e si propagano spesso in maniera incontrollata, come un fiume in piena che si ingrossa ad ogni passaggio.
Nel mentre, e oggi ciò avviene sempre più spesso, chi dovrebbe sentire, per il ruolo che ricopre, un grande senso di responsabilità, invece di sopire, alimenta. Sono tutti coloro che a vari livelli, dalla politica agli altri settori dirigenziali, cavalcano l’onda utilizzando, a loro volta e con varie modalità, lo stesso tipo di linguaggio.
Una volta costantemente ripreso il meccanismo funziona come una gran cassa e sembra portare consenso. Corre l’idea che certe parole e certe espressioni, per il solo fatto di essere state sdoganate, abbiano perso il loro significato e sia quindi lecito, anzi di più, obbligatorio, utilizzarle. Ma cosi non è.
Il linguaggio, infatti, ha un peso perché ci rappresenta. Le parole che pronunciamo sono “nostre” e non sono vuote, sono le nostre idee. E passare dalle parole d’odio alle azioni d’odio è purtroppo abbastanza facile, come tutta la storia, tristemente, ci insegna. Ciò vale per i rapporti tra Stati come per i rapporti tra gruppi sociali e singoli individui.
Il linguaggio che colpisce come pietra non solo esprime stereotipi e pregiudizi, interpretando la realtà in maniera distorta, ma può spingere ad atti violenti. È quindi un nostro dovere morale, e non una banale questione di educazione, guardare bene all’uso che facciamo delle parole.