AL CONFINE DELL’INFINITO
Ci sono luoghi che potremmo definire “luoghi dell’anima”, spazi nei quali ci sentiamo bene perché percepiamo di sentirci diversi: possono essere edifici di culto, quelli che F. Cardini in un suo interessantissimo saggio chiama “Le dimore di Dio”, oppure aree all’aperto come boschi, prati, spiagge o altro.
Ecco esiste un luogo particolare sulle nostre montagne delle Alpi, in prossimità del Passo Rolle, che è veramente un luogo dell’anima: è la cima di un monte, raggiungibile attraverso una salita non certamente accessibile a tutti. Ma chi ha la fortuna di poterla affrontare, vive, lì in alto, un’esperienza unica e tre sono gli elementi che la rendono tale: la fatica, lo stupore, il rapporto.
Elementi che accomunano questo trekking alla ricerca filosofica: lì si tratta della fatica del camminare in salita, metafora della fatica del vivere, quì si tratta della fatica del pensare; lì si tratta dello stupore di fronte a qualche cosa che non ti aspetti di trovare così come lo trovi, quì si tratta dello stupore della mente di fronte alla potenza del pensiero stesso; lì si tratta del rapporto uomo-natura, qui si tratta del rapporto uomo-Dio.
Quel Cristo che invece di essere sulla croce, che pure è lì accanto, se ne sta seduto, appresso, a pensare e a guardare l’infinito con la corona di spine in capo. Non è dunque un Cristo risorto, è un Cristo-uomo che ha preso il nostro posto fino in fondo perché, sofferente, si è fermato sull’orlo dell’infinito naturale a pensare. E quindi è un Cristo che ci interroga senza interpellarci direttamente, ma la potenza del suo gesto e del suo silenzio sono devastanti. Utilizzando le parole di K. Barth dalla “Epistola ai Romani” del 1922: “Non è l’uomo che pensa Dio, ma è Dio che pensa l’uomo”.
Per secoli la filosofia, che non possiede la granitica certezza della fede, ma solo la forza del dubbio, si è interrogata senza sosta sul problema di Dio: egli esiste e se esiste che cosa è? Ancora non abbiamo risposta, solo ricerca, continua, incessante, multiforme ricerca. Tanti gli autori, tante le posizioni dall’ateismo più radicale ai tentativi di dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio.
Ma, come sostiene Pascal e conferma Spinoza, esiste una distanza difficilmente colmabile tra il “Dio dei filosofi” e il “Dio della Bibbia”. E poi Kant che afferma la sconfitta delle pretese della metafisica di pensare razionalmente Dio per mantenere aperto un varco alla fede perché “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia” (“Amleto” Atto I scena IV Shakespeare) E allora segniamo un punto a sfavore della filosofia?
Non necessariamente perché le sconfitte contengono sempre delle positività, ridimensionano e fanno prendere consapevolezza del limite: esiste un’infinito non dimostrabile, ma percepibile e soprattutto necessario, anche per chi lo nega. Come ci ricorda Anselmo d’Aosta: “Non cercare di intendere per poter credere, ma credi per poter intendere”.
E lassù sul monte del Cristo pensante, o in un qualsiasi altro luogo dell’anima, “l’atteggiamento di apertura o di chiusura di fronte a Dio, (diventa) un atteggiamento positivo o negativo nei confronti della realtà, un atto di fiducia o sfiducia in cui ci si mette in gioco completamente” (H. Kung), un atto che dà senso alla nostra vita.