DAL PROPRIO CORPO A QUELLO DEGLI ALTRI
Il dolore, sia esso fisico sia psichico, è una esperienza che tutti, a vari livelli, nella vita si trovano a dover affrontare perché nessun essere vivente ne è esente. Per questo tutte le culture, orientali e occidentali, da sempre hanno cercato e cercano di sondarne il senso profondo per, in qualche modo, fornire una risposta alla domanda “Perché il dolore?” ed in questo modo tentare di esorcizzarlo.
Individualmente, nella vita di tutti i giorni, questo tentativo si concretizza, in maniera molto semplice, o spostando l’obiettivo (per esempio, chi partorisce con metodo naturale riconosce che il dolore è stato grande ma che “ne è valsa la pena” perché si è ottenuto un risultato positivo e quindi soffrire non è stato vano) o collegando la quantità e la tipologia della sofferenza alle necessità pratiche (a un pianista che dovesse fratturarsi una mano ciò apparirà molto più tragico rispetto a quanto lo stesso incidente potrebbe apparire ad un cantante).
All’interno della ricerca filosofica la questione è molto più complessa. Nell’antichità i Greci avevano iniziato individuando due parole ben distinte per separare tra loro le due dimensioni del dolore: álgos, che allude alla dimensione fisica (provo dolore, sono malato, soffro) e, pathos, termine che allarga il senso alla sofferenza emotiva e psichica e quindi alla dimensione interiore (sono angustiato, afflitto, turbato). Da qui la ricerca, da un lato, con la nascita della medicina, dei rimedi che potevano alleviare o cancellare la sofferenza del corpo, dall’altro, con la filosofia, delle indicazioni per collocare questa sofferenza, al pari di quella psichica, in un possibile spazio di sopportazione.
Su questa linea si collocano tutti gli autori che ci propongono di leggere il dolore come qualcosa che deve essere assolutamente “fuggito” attraverso “tecniche” legate alla “atarassia” ovvero l’indifferenza del saggio. Ma il problema del non-senso del dolore resterà per la filosofia un problema non risolto e per qualche autore, non a caso novecentesco (il secolo che sperimenta i grandi dolori collettivi), sarà addirittura il problema della vita umana. Il dolore infatti contraddice la ragione che non sa darsi spiegazione del perché il dolore abbia colpito proprio quell’individuo e quali colpe egli possa aver commesso per meritarlo e, infine, perché il dolore travagli il mondo.
In Occidente solo una religione, quella cristiana, riconosce al dolore una forte valenza positiva, ponendolo al centro del percorso di redenzione. Comunque lo si voglia intendere, però, resta il fatto che il dolore ci costringe a compiere alcuni passi fondamentali: riconoscere quanto dipendiamo dal nostro corpo che non possiamo sempre controllare perché quasi “altro da noi”, modificare i nostri rapporti con il mondo e _accettare che la struttura narrativa della nostra vita venga spezzata.
Infatti sebbene il corpo sia una presenza imprescindibile, quando stiamo bene esso non è l’oggetto delle nostre attenzioni che sono invece normalmente dirette verso il mondo esterno. Al contrario quando ci sono dei problemi lo “sentiamo” in maniera decisa e negativa tanto da investirne l’intera esistenza. Il dolore comprime il presente eliminando il futuro e l’armonia tra pensieri, corpo e mondo viene interrotta: quest’ultimo risulta trasformato perché non è più possibile vivere come prima.
E più il dolore è forte e più diventa una prigione, un restringimento della realtà. Questa caratteristica inquadra il dolore come un’esperienza puramente individuale che non può essere “condivisa” con gli altri. Il filosofo Salvatore Natoli, che ha dedicato molta parte del suo lavoro alla tematica del dolore, sottolinea, molto bene, proprio questo aspetto della solitudine come tratto saliente di chi soffre: “Il cerchio di solitudine si rafforza da sé poiché da un lato il dolore rende oggettivamente estranei, dall’altro è il sofferente che si rende estraneo al mondo a cagione del suo dolore.”
Ma, al tempo stesso, ci fa notare un altro filosofo, Paul Ricoeur: “Da un lato, sono io che soffro e non l’altro, i posti che occupiamo non sono intercambiabili; d’altro lato nonostante tutto e a dispetto della separazione, la sofferenza che si manifesta nel lamento è appello rivolto all’altro; richiesta, forse impossibile da esaudire di un soffrire senza riserve.” Ecco quindi che nella contingenza del dolore è possibile far emergere l’esperienza della Compassione intesa nel suo più alto significato etimologico.
La compassione non è la commiserazione, non è il provare pena è il “cum patior” latino o la “sym patheia” greca ovvero il “soffrire con”, il percepire la sofferenza altrui ,come se fosse propria, desiderando di alleviarla. È condivisone emotiva per la quale io sofferente “capisco” quanto hanno sofferto e soffrono gli altri e per questo ne avrò d’ora in poi profondo rispetto. È la partecipazione di io che non sono sofferente alla sofferenza altrui con i pensieri e le azioni.
Per questo sono sufficienti anche solo piccoli atti: una telefonata di conforto che porti sinceri momenti di spensieratezza o un non parcheggiare negli stalli riservati ai disabili. Perché non tutti sono chiamati ad essere degli eroi ma, nella attesa, forse vana, che la scienza elimini completamente ogni dolore, tutti sono chiamati a recuperare, in questa società che ha dimenticato il “cum”, il senso vero della compassione.