Nella nostra quotidianità ognuno di noi si circonda di prodotti e fruisce di servizi. In realtà anche i prodotti poi si trasformano in servizi. È l’utilizzo stesso, infatti, che “produce” servizi.
I prodotti vengono ideati e realizzati con uno scopo, che è quello di essere venduti. Per convincerci ad acquistarli, promettono (e solitamente mantengono) di fornirci un certo servizio, e di fornircelo di qualità, in modo che noi acquistiamo ed utilizziamo con fiducia.
Spesso la qualità è sinonimo di durata, e dunque certi produttori hanno poi il problema di farci acquistare di nuovo un loro prodotto, nonostante quello che abbiamo già funzioni ancora benissimo.
Ecco dunque il ricorso ad espedienti come la famigerata obsolescenza programmata che fa sì, ad esempio, che certi prodotti elettronici acquistati quando erano all’avanguardia, improvvisamente diventano quasi inutilizzabili, e non perché guasti, ma perché, appunto, tecnologicamente obsoleti.
O a sottili meccanismi psicologici, come indurci a credere di avere voglia di cambiare automobile, quando quella che abbiamo comprato anni fa proprio puntando sulla qualità, funzionerebbe ancora perfettamente per molti anni. Pochi prodotti non hanno questi problemi, perché nascono per essere consumati. Ovviamente tutti i prodotti alimentari.
E poi le armi. Le armi da guerra, in particolare, nascono proprio per essere distrutte. Per distruggere ed essere distrutte. Vengono prodotte in grande quantità, e sono di grandissima qualità, frutto di ricerche e tecnologie di altissimo livello.
Gran parte dei prodotti di uso quotidiano dagli smartphone ai droni, o dei servizi, ad iniziare dalla stessa rete internet, sono il risultato di ricerche rese possibili proprio dagli imponenti investimenti economici destinati ai laboratori di ricerca dell’industria bellica.
Investimenti che sembrano non conoscere crisi. Ecco perché quando parliamo di guerra, a me sembra che in realtà si stia parlando del più florido mercato del mondo. Prodotti di altissima qualità, fatti per distruggere ed essere distrutti, hanno bisogno, per definizione della possibilità di produrre il loro “servizio”.
Che poi questo coincida con devastazioni, morte, violenza, sofferenze, esodi di intere popolazioni, sospensione individuale e sociale di ogni principio e legge morale e di comportamento civile, e con tutto quello di cui crediamo di parlare, quando parliamo di guerra, è in realtà solo una ulteriore conseguenza del tipo di servizio che questa industria propone e offre al “suo mercato”.
A volte poi penso che anche quando parliamo di ricostruzione, parliamo di uno dei motivi, e non della conseguenza. D’istinto verrebbe da dire che ricostruiamo perché è stato distrutto. Ma è sempre più forte in me il sospetto che invece, si distrugga per ricostruire.
Nel frattempo si è ormai insinuato nel mio cervello e nel mio cuore un sempre più forte senso di colpa, ogni volta che salgo sul mio quindicenne potentissimo e inquinante suv. Mi sento anche io un po’ responsabile delle variazioni climatiche.
Ma non ho trovato mai nessun dato, o ricerca su quanto inquina, quanto nuoce alla situazione climatica e alla vita del pianeta, ogni singola guerra. Armi da distruggere, ricostruzione, inquinamento. Morti e disperazione. Di cosa parliamo, quando parliamo di guerra?