Ogni mattina, verso le 9.30, il centro d’ascolto della Caritas apre le sue porte a chiunque che per un motivo o per l’altro decida di entrarvi. C’è chi entra solo per poter fare una colazione in compagnia di altre persone, chi per prenotare la possibilità di farsi una doccia e chi per chiedere una qualche forma di aiuto.
È ormai sempre più frequente, che tra tutti quelli che arrivano al centro d’ascolto per qualsiasi motivo ci siano “persone che non esistono”. Esatto, proprio loro! Individui che per il solo umile desiderio di avere una vita dignitosa, scelgono di intraprendere un viaggio, in cui il rischio di morte è più alto del rischio di riuscita.
Dopo aver attraversato i deserti, le detenzioni illegali, le torture, il dramma del mare spesso li possiamo ritrovare all’interno di una lunga coda di persone di fronte agli uffici immigrazione delle prefetture italiane e molto spesso alla fine dell’interminabile fila trovano qualcuno a dirgli “siamo spiacenti, ma per oggi siamo al completo, dovrai rimanere invisibile per un’altra settimana”.
L’interminabile fila è quella che devono fare le persone per registrare la loro presenza sul territorio, formalizzare il loro percorso di richiesta di accoglienza e essere inseriti in una struttura convenzionata con il Ministero, che si occuperà di fornirgli vitto, alloggio e alcuni servizi finalizzati a favorire un processo di inserimento nella società.
Senza questo passaggio, una persona rimane con un pugno di mosche in mano e un appuntamento per la settimana successiva. Ebbene sì, il nostro Paese per molti essere umani è accessibile solo se scegli di rischiare innumerevoli volte la vita e solo se sei disponibile ad accettare il fatto che una volta arrivato, potrebbero passare mesi, prima che qualcuno ti garantisca la possibilità di formalizzare la tua richiesta d’asilo e quindi di essere considerato una persona alla quale riconoscere i diritti fondamentali.
Per dovere di cronaca è importante segnalare che i passaporti delle persone “in fila” non sono abbastanza “forti” per raggiungere l’Europa tramite vie legali e l’unico modo per sperare di avere una vita normale è quello di rischiarla nelle rotte migratorie e di “vendersi” ai trafficanti di uomini.
Essere costretti a un’altra settimana di invisibilità significa non avere i documenti necessari per poter passare la notte in un qualsiasi albergo e spesso anche in alcuni dormitori; significa non potersi permettere di lavorare perché impossibilitati ad avere un contratto di lavoro; significa ricordarsi ogni giorno che non è vero che tutti gli uomini sono uguali e tutto questo accade non certo per merito ma semplicemente per una diversità di diritti acquisiti alla nascita.
Caritas è da sempre attiva in questo settore, accoglie persone in attesa di essere riconosciute dagli uffici immigrazione e in attesa di iniziare il loro per corso istituzionale di accoglienza, ma la sua attività, insieme a quella di altre realtà che si impegnano in questo campo, non è assolutamente sufficiente ad affrontare questa problematica.
Per quanto tempo possiamo continuare a voltarci dall’altra parte? Il 16 giugno nel mar Egeo 100 bambini sono morti, chiusi in una stiva di una nave affondata, ed è verosimile pensare che qualche loro parente, scampato a quella tragedia, ora sia presente in una delle tante file. Come faremo ad accogliere, anche minimamente, il suo dolore se non riusciamo neanche ad accogliere i suoi diritti fondamentali?