PER PERDERSI O PER TROVARSI
Un/a Hikikomori e un/a Stilita: due diverse realtà del ritiro volontario dal mondo, ma mentre la prima corrisponde all’isolamento, la seconda è l’espressione della solitudine vera.
Gli/le Hikikomori (termine che in giapponese significa “stare in disparte”) sono giovani, anche giovanissimi, che decidono di chiudersi fisicamente nella loro stanza senza più uscirne, mantenendo con il mondo esterno il solo contatto online.
Il fenomeno, purtroppo, si è, negli ultimi tempi, esteso in maniera preoccupante, in molti paesi nel mondo, Italia compresa, tanto che anche nel nostro Paese ha cominciato a prendere vita, tra gli esperti e nei mezzi di informazione, un primo dibattito che è, però, ancora ben lontano, dall’avere la caratteristica di una ricerca approfondita.
Le prime indagini, tuttavia, calcolano l’ammontare dei giovani coinvolti vicino alla cifra di 50.000. Se così fosse, e sembrerebbe di sì, ci troveremmo di fronte ad una vera e propria emergenza sociale, una piaga paragonabile a quelle provocate dall’uso degli stupefacenti o dall’abuso dell’alcool. Con l’aggravante che, per il momento, risulta molto difficile individuare una strada efficace per aiutare queste persone “perse alla società e a sé stessi”.
Alcuni studiosi considerano questi/e ragazzi/e l’agghiacciante risultato della condizione ipertecnologica dell’uomo del tempo presente che la pandemia ha ferocemente aggravato. Sono quindi l’espressione di un disagio culturale, sociale, psicologico e relazionale che conduce alla perdita totale del contatto con il mondo reale e al disinteresse perfino verso sé stessi.
Al contrario gli /le Stiliti/sse, pur vivendo in una modalità del tutto singolare, immersi nella solitudine, paradossalmente abitavano nel mondo reale. Erano persone che avevano deciso, come altri ordini religiosi, di isolarsi, ma letteralmente da soli in luoghi inaccessibili come per esempio la cima di una alta colonna dalla quale non scendevano mai.
Il fenomeno appartiene ad epoche passate (tra il V e il VII secolo d.C.) ed è argomento di interessanti ricerche storiche (vedere il bel volume “Al di sopra del mondo. Vite di santi stiliti” di Laura Franco), ma ne abbiamo un esempio ancora oggi: il monaco Maksim Qavtaradze, che vive in un eremo su un pinnacolo di roccia in Georgia.
Lassù egli esperimenta quella che, come spesso ha sostenuto il Cardinal Martini, è la positività della solitudine quella che ci permette di rigenerarci. Perché per capire veramente il mondo dobbiamo, per un momento, distaccarcene: dobbiamo cioè “mettere a fuoco”.
Chiudersi nel silenzio, senza la presenza fisica degli altri accanto, ci consente di ritornare, dopo, all’esterno, come “potenziati” con forze nuove e vitali. Certo quella dello Stilita è una scelta estrema, ma a differenza dell’Hikikomoro porta frutti alla società. Non è un segno di disagio, bensì la realizzazione di una caratteristica umana.
Perché l’uomo come sosteneva Aristotele è un “animale sociale”, cioè è fatto per vivere insieme agli altri, ma al tempo stesso, come ci fa riflettere Michel de Montaigne, in quel piccolo capolavoro che sono i “Saggi” (ultima versione 1588), ha bisogno, per esserlo, anche di uno spazio e di un momento che siano, per un po’, solo suoi.
In quella esperienza di solitudine si prende cura di sé così che poi potrà tornare a prendersi cura degli altri.