CIÒ CHE RESTA DEL NATALE
Tutto è passato, tutto è tornato nella sua ferialità e tra poco arriveranno altre ricorrenze, quindi sembrerebbe che parlare ora del Natale non abbia senso, ma il Natale ritornerà, con precisone matematica, il prossimo 25 dicembre.
E allora perché non riflettere fuori dal caos, fuori dalla frenesia, perché non pensare attorno al Natale e su ciò che generalmente a Natale, in molti, facciamo? Del Natale moltissimi hanno parlato e parlano, migliaia di libri sono stati scritti, centinaia di film prodotti e tanti di questi ci vengono, ogni anno, più o meno felicemente, riproposti.
Due autori, in particolare, potrebbero essere considerati quali punti di riferimento per due diverse interpretazioni del fenomeno Natale. 1843 Charles Dickens pubblica A Christmas Carol, 2004 esce postuma per la graffiante penna di Dino Buzzati Il panettone non bastò.
Scritti, racconti e fiabe natalizie. Mentre la novella dello scrittore inglese diventa, da subito, con enorme successo, il modo di raccontare il Natale, anzi lo spirito stesso del Natale con tutto il suo contorno di cibarie e bevande in quantità pantagrueliche e il suo frenetico scambio di regali, quelli di Buzzati sono racconti che sferzano questo stravolgimento del senso vero delle festività natalizie.
Là dove uno ha inventato un sistema, l’altro lo ha messo a nudo. L’enorme spreco di cibo e il diluvio di oggetti che, attraverso la ritualità di un gesto divenuto banale, rovinano il valore del dono. Il dono che dovrebbe essere ciò che viene dato per pura liberalità, stritolato nell’ingranaggio del consumismo e dell’effusione patinata dei sentimenti, è diventato un mero elemento dei rapporti sociali e degli obblighi che questi ultimi comportano.
Per questo, quasi con inquietudine, ogni Natale si va alla ricerca del regalo perfetto: quello che, a parità di costi, ci permetta di fare una bella figura, ossia produca nel ricevente la miglior immagine di colui che dona, nell’ottica perversa del do ut des. Il dono così non è più parte di noi stessi per gli altri, ma viene a istituire un legame di dipendenza fra chi offre e chi riceve.
Nel 1924 il sociologo francese Marcel Mauss scrisse un bel testo dal titolo Saggio sul dono nel quale, comparando la cultura occidentale con quella di altre realtà nel mondo, individuò nel dono stesso, quando privato della sua radice di gratuità, un fenomeno sociale totale in cui, attorno all’apparente libertà racchiusa nell’atto del donare, sono all’opera ben tre obblighi: quello di dare, quello di ricevere e quello di ricambiare.
Interessante a tal riguardo richiamare la posizione di un grande filosofo, fortemente fuori dagli schemi, quale F. Nietzsche che, pur lontano da posizioni religiose, intende il dono non come ipocrisia dell’amore per il prossimo, ma come ricchezza inesauribile che si riversa per amor di sé, come il sole, specchiando la sua luce nel mare, fa sì che anche il più povero dei pescatori remi con un remo d’oro.
Questo è lo spartiacque tra il dono altruista, che manifesta effettivamente cura nei confronti dell’altro, e il dono egoista, che nel gesto esprime solo il donatore e la sua autosufficienza.
Se la cultura occidentale abbonda di doni avvelenati (come, curiosamente, conservato in alcune lingue: la parola gift in inglese significa dono mentre in tedesco significa veleno) e avvelenati sono infatti: il fuoco di Prometeo e il vaso di Pandora, la mela di Paride e il cavallo di Troia, il frutto che Eva porge ad Adamo nel giardino dell’Eden e la mela nella favola di Biancaneve, è necessario restituire al dono la sua innocenza perché torni gratuito, incondizionato e unilaterale.
«Che la mano sinistra non sappia ciò che fa la destra», dice il precetto evangelico. Il dono perfetto è in fondo il dono silenzioso e segreto, il dono che rinuncia al possesso e alla simmetria dello scambio, il dono che non è semplice regalo.
Se si rimane nel registro dell’avere chi dona ha qualcosa di meno e chi riceve qualcosa di più, ma se ci sposta nel registro dell’essere il dono diventa per chi ha donato un doppio più e cessa di consistere nell’inizio di una catena illimitata di controdoni che unendo, in apparenza, in realtà dividono e, a volte, umiliano. Nel gesto del donare non è importante che l’effetto sia stupire (in quantità o valore economico) è essenziale che scaldi il cuore.